20 Aprile, 2024

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Come si formano i veri campioni

Come si formano i veri campioni

Da un articolo di Elica Chiari su sanpaolo.org
Allenare è un’altra voce del verbo educare. Un mestiere imparentato con l’insegnamento e con la paternità: si tratta di far crescere qualcuno.Non fidatevi di chi vi dice che lo sport è questione di corpi. Soprattutto ad alti livelli è questione di teste. Il corpo è scontato

c’è: sa fare cose che solo pochissimi possono permettersi, in condizioni di selezione estrema. A un’Olimpiade, a un Campionato del mondo si tratta di scegliere su sei miliardi di persone i tre più abili nel compiere un preciso gesto. Tra i 20 o 30 che arrivano a giocarsi l’ultima chance lo scarto tecnico e di preparazione è infinitesimale. Ai vertici è improbabile che sia una sostanziale disparità tecnica a determinare il risultato: non vince il più bravo, perché bravissimi, per il solo fatto di essere lì ad aspirare al podio, sono tutti. Vince chi non trema dentro.Per questo un vero allenatore è sempre un maestro. Ci vuole carisma per insegnare a vincere e a perdere, serve un misto di sapienza tecnica e di intelligenza emotiva. Ci vogliono parole: un allenatore che sa trovare quelle giuste al momento giusto può fare la differenza, che si tratti di vincere le Olimpiadi o di convincere un bambino a non mollare sul più bello.A volte tra campioni e bambini ricorrono insospettabili analogie. Guardate qui:1. Vietato giocare alla playstation. 2. Niente cellulari, se non in camera. 3. A colazione si scende tutti alla stessa ora, in abiti civili, non in pigiama. 4. Nelle occasioni ufficiali si porta la divisa della squadra. Queste regole, che calzerebbero a pennello a un convitto di monelli indisciplinati, sono state dettate poco più di un anno fa da Fabio Capello appena nominato commissario tecnico della Nazionale di calcio inglese. Vale per i campioni quel che vale per i ragazzi – spesso ci si scopre campioni da ragazzi –, vale tutto quello che serve a convivere senza troppa confusione: regole chiare e rispetto del ruolo proprio e altrui, diversamente si resta un’accozzaglia di individualisti, ma non si diventa squadra.Capello, allenatore con fama di “duro”, faccia coerente con la fama, ha vinto molto ovunque e sta conquistandosi la fiducia degli inglesi: la squadra che ha preso in mano, poco concreta e da troppo tempo lontana dalle manifestazioni che contano, si sta guadagnando la qualificazione ai prossimi mondiali di calcio in programma nel 2010 in Sudafrica. Il suo è soltanto uno dei modelli con cui si fa squadra, uno dei pochi, resi pubblici, per scelta, ancor prima di cominciare a lavorare. Il più delle volte, invece, quel che accade dentro uno spogliatoio, non esce dalla porta. Ma è sempre da lì che si comincia a vincere. Molti mesi prima o molti anni prima di andare a giocarsi qualcosa di importante.
Fabio Capello È tra gli allenatori più titolati del calcio mondiale: ha vinto, tra le altre cose, 7 campionati italiani e 2 spagnoli con quattro squadre diverse. Al momento allena la Nazionale inglese.

Provocare è una tatticaChi guarda si illude che la storia vera sia la gara. Ma quasi mai lo è. Quella, comunque vada, è l’epilogo di una lunga vicenda che si consuma di solito – indiscrezioni a parte – nei giorni oscuri di un campo d’allenamento, nel chiuso di uno spogliatoio. Il risultato finale nasce sempre lontano dai riflettori e la chiave che sblocca una partita in stallo non è mai un passepartout.Tocca a chi comanda trovare il grimaldello di parole che ridà vita a un meccanismo inceppato. Capita, durante certe partite che cambiano rotta improvvisamente, di desiderare di trasformarsi in una mosca per volare dentro e scoprire che cosa si dicono dietro la porta chiusa.Un caso recente ha suscitato scandalo, corre voce che José Mourinho abbia a un certo punto strigliato la sua Inter con parole ruvidissime. Secondo quanto riportato da alcuni organi di stampa sarebbero suonate più o meno così: «Il primo scudetto l’avete vinto in segreteria, il secondo senza avversari, il terzo all’ultimo minuto. Siete proprio una squadra di…». Al posto dei puntini doveva esserci un termine non proprio aulico per dire tutto tranne campioni. Ne è scaturito un vespaio, tifosi avversari inneggianti al grido di “Mourinho è uno di noi, dice le cose che noi diciamo da sempre”, tensioni con la società, indignazione di molti, minacce di querela ai divulgatori.In effetti, preso fuori contesto, lo sfogo non pare elegantissimo, ma il contesto pesa. Immaginiamo di ricollocare le stesse frasi nella loro originale sede: la squadra di fenomeni, prima in classifica in Serie A, ha preso tre sventole da un avversario sulla carta più che abbordabile. La seconda in classifica si avvicina pericolosamente. E i campioni non riescono a ritrovare la memoria di sé stessi.A quel punto il compito di un tecnico capace è trovare la via per uscire dall’impasse. Fosse anche attraverso una provocazione a freddo.Julio Velasco, allenatore oggi della Spagna, un tempo della Nazionale di pallavolo più forte di sempre, l’Italia degli Zorzi, dei Lucchetta dei Bernardi, molto prima che scoppiasse il caso Mourinho, in tempi non sospetti, sintetizzava così il rapporto con la sua squadra di fenomeni: «Una volta me li portai tutti quanti in conferenza stampa, – la prassi vuole l’allenatore accompagnato da un giocatore o due al massimo – perché ci mettessero tutti la faccia. Dovevano spiegare una pessima figura rimediata in campo. Era una provocazione, ovviamente, ma siccome era una squadra di carattere ha reagito. A me al momento interessava relativamente poco la partita persa, poco importante per il prosieguo del torneo, ma avevo bisogno che si scuotessero per le partite successive. Provocare è una tattica. Se dico a un giocatore forte e grintoso che ha paura, si arrabbia, vorrebbe prendermi per il collo, siccome non può, va in campo e sfoga là la tensione accumulata contro di me. Quel che io dico dentro lo spogliatoio è una questione privata tra me e la squadra, per questo non voglio microfoni nei time-out accettati con disinvoltura da molti miei colleghi, i giocatori devono sapere che le mie parole sono funzionali alla circostanza e non minano il rapporto di fiducia che ci lega».Ecco allora il vizio di forma del caso Mourinho: non le parole in sé, vere o presunte che fossero, ma l’averle lasciate uscire, scatenando un effetto deflagrante che non avrebbe avuto ragione di esistere. Episodi simili sono routine, normali nella vita di tutte le squadre, dal campetto di periferia alla Nazionale campione del mondo. Con la differenza che, normalmente, non c’è nessuno a raccontare il “fuori onda”.
José Mourinho Portoghese, oggi allenatore dell’Inter, è uno dei tecnici più noti del calcio mondiale. Ha costruito la sua fama sbancando il calcio europeo prima in Portogallo con il Porto e poi in Inghilterra con il Chelsea. Deve molto anche a una vivace dialettica, che lo porta spesso al centro dell’attenzione mediatica.

Julio Velasco Doppia cittadinanza argentina e italiana, laureato in filosofia, è un monumento della pallavolo mondiale. Ha allenato club di successo in Argentina e in Italia. Ha vinto tutto tranne l’oro olimpico da Commissario tecnico della Nazionale italiana. Attualmente siede sulla panchina della Spagna.

Le regole non sono tuttoNon tutti adottano lo stesso metodo, non tutti hanno la ruvidezza nel Dna ma fiducia e regole stanno sempre tra le parole chiave del vocabolario di chi allena. Alla fine si vince e si perde soli, sempre, ai livelli alti e a quelli bassi. Ma il percorso si compie sempre con una guida: a volte è una strada lunga, che dura una vita. Ci si incontra per caso praticando da piccoli lo sport di tutti e poi magari si scopre un talento che cresce con gli anni, fino ai vertici mondiali.Resta la disciplina come concetto base, da applicarsi diversamente secondo le specialità. Ci sono sport, i giochi in genere, calcio, pallacanestro, tennis, in cui esiste una dimensione di estro, di inventiva istintiva o strategica da parte del giocatore e altri, come la ginnastica, il pattinaggio di figura, il nuoto sincronizzato, in cui quello che avviene in gara è pianificato a priori senza scarti.Non è un caso che proprio nel calcio si chiami fantasista il titolare della regia, il giocatore che ha il “compito” di inventare l’azione. Ferme restando regole e disciplina, tocca all’allenatore lasciare che l’estro di un giocatore si esprima, evitando di imbrigliarlo in un eccesso di schematismo, senza minare l’equilibrio della squadra. Si pensi a un esempio rubato al calcio di tempi andati, all’Inter di Helenio Herrera, passata alla storia come la grande Inter. In un tempo, gli anni Sessanta, in cui i tecnici usavano ingabbiare i difensori entro la propria metà campo, Herrera concesse un’eccezione al talento di Giacinto Facchetti, cogliendo le occasioni che potevano venirgli da un terzino capace di portare palla, in caso di necessità, fin dentro la porta avversaria.In altre discipline, invece, lo spazio di fantasia si esplica al massimo nella fase preliminare di costruzione dell’esercizio per poi cessare completamente finalizzando l’allenamento all’automatismo. È il caso del pattinaggio artistico, del nuoto sincronizzato, della ginnastica artistica e ritmica (anche a squadre). Una volta assemblata la sequenza dei movimenti da memorizzare gli atleti devono arrivare in gara capaci di eseguire tutto come se fosse un processo automatico, riducendo a zero ogni possibilità di intervento e al minimo l’incidenza dell’errore. L’allenamento è basato sulla ripetizione ossessiva delle sequenze spezzate: la regolarità, la disciplina, il rigore, il controllo delle emozioni diventano essenziali al risultato. È ovvio che in questi casi l’allenatore, per condurre al successo, può concedere e concedersi ben pochi strappi alle regole.Allenare, come insegnare, però, è un arte complicata, le regole non sono tutto: spesso si vince o si perde in proporzione all’efficacia della relazione che un allenatore riesce a creare con la propria squadra o con il proprio atleta, secondo che si tratti di discipline di gruppo o individuali.Se è vero che si vince (e si perde) soli, in gara, anche negli sport individuali, si va almeno in due: l’atleta che si cimenta e l’allenatore che soffre ai margini. Se in un gioco di squadra, durante una partita, l’allenatore ha una possibilità pur limitata di azione, almeno dal punto di vista strategico, nello sport individuale non ci sono margini di manovra: nel tennis è addirittura proibito il contatto, in altre discipline, la possibilità di incidere sul risultato durante la gara è minima o nulla.Assistere a una gara d’alto livello, potendo ascoltare le parole di un allenatore in diretta è un privilegio raro e insieme un viaggio straordinario nei processi psicologici dello sport. L’abbiamo fatto a Pechino 2008, durante la 50 chilometri di marcia di Alex Schwazer, cogliendo l’opportunità di vedere da vicino come si costruisce l’ultimo atto di una medaglia d’oro.Avendo un percorso su strada, impostato sulla ripetizione di un rettilineo di un chilometro da coprire 50 volte avanti e indietro, la marcia olimpica è un evento che permette, pur in maniera episodica e fortunosa ad atleti e allenatori di dialogare. Ci si dà una sorta di appuntamento al chilometro, giusto per dirsi come si sta. Alex Schwazer e Sandro Damilano si accordano per un punto a metà del rettilineo, in modo da potersi incrociare due volte a giro. Si parlano come se fossero soli. Forse lo sono, come in una bolla. Vista da lì la marcia è un braccio di ferro: Alex che parte in testa e ha fretta di andare, il maestro che vorrebbe mettergli il freno per 30 chilometri gli grida «Vai piano». Mentre l’altro ostenta sicurezza: «Oggi è facile, li uccido». Damilano sembra tarantolato: si preoccupa per il cinese del gruppo di testa, teme che i giudici abbiano per lui un occhio di riguardo. Al “facile” scuote la testa e riprende la sua marcia parallela lungo il percorso: panchina, tabelloni, transenne, panchina. Non tutte le gare sono uguali e l’Olimpiade è diversa da tutte. Conta arrivare pronti in un preciso istante, perché l’occasione giusta a volte passa una sola volta nella vita. Bisogna saperlo, ma anche domare il peso che quella certezza comporta.Alex ha 23 anni, vive quel giorno per la prima volta, Sandro ha conosciuto altre giornate così, sa che non tutte arrivano al traguardo. Ma tempo di spiegare a quel punto non ce n’è: in gara si parla a monosillabi. Schwazer sembra freschissimo, il passo ormai è per pochi eletti. Damilano vorrebbe tirargli il freno: «Non scattare, aspetta gli ultimi tre o quattro giri. Siete rimasti in tre, il cinese è staccato, sei almeno bronzo».Alex si volta che già sta quasi passando via e urla rabbioso: «Ma io voglio vincere».«E allora vinci!». Nel tono c’è un rimprovero, ma è tutta tattica. Solo quando Alex sarà abbastanza lontano da non sentire più, Sandro si volterà e penserà a voce alta: «Era la risposta che volevo». Ora sa che Alex non ha più bisogno di lui. Può correre via a godersi l’emozione di vederlo entrare dentro lo stadio pieno. E se per chi guardava la Tv le immagini del trionfo appartengono tutte al ragazzo biondo che baciava un braccialetto pensando a una fidanzata lontana, per chi ha seguito da vicino l’emozione ha la faccia di un signore dai capelli bianchi, che entra solo nello stadio e si siede a una postazione della tribuna stampa, proprio sul traguardo. E poi affonda la testa nell’incavo delle braccia conserte sul tavolino e rimane lì, immobile, a fronteggiare al buio lo sconquasso del suo sogno che diventa vero.
Sandro Damilano Una vita per la marcia. Allena da 37 anni, i primi allievi furono Giorgio e Maurizio, gemelli, suoi fratelli minori. Si abbracciarono sul traguardo dell’Olimpiade di Mosca (1980). Maurizio primo, Giorgio 11°. Da allora Sandro ha vinto oltre 40 medaglie internazionali tra cui l’oro all’Olimpiade di Pechino, con Alex Schwazer.

Bisogna agire da educatoriNon tutti i giorni sono di grazia, nemmeno alle Olimpiadi. Luciano Gigliotti che ha conosciuto due volte l’oro olimpico da maestro dei maratoneti, a Pechino 2008, nel clima da sauna di un mattino asiatico straordinariamente appiccicoso, ha visto la faccia scura che sempre hanno le medaglie che non arrivano. Guardava Stefano Baldini, il suo campione olimpico di quattro anni prima, trionfatore della maratona di Atene, arrivare 12° dopo una gara durissima e lo guardava ammirato: «Pochi capiranno, domani», spiegava ancora dentro la pancia dello stadio a forma di nido «l’uomo della strada vede soltanto quelli che vincono e da un campione come Stefano tutti si aspettano che vinca sempre. Avrei preferito anch’io una conclusione diversa, senza infortuni alla vigilia, a minare uno stato di forma che avevamo previsto diverso, ma io oggi ho visto un grande professionista, come sempre è Stefano del resto. Un altro forse non sarebbe partito, lui sì, dimostrando di saper stare con i migliori anche in una giornata nata male come questa».Non è mai facile spiegare a chi guarda le gare da fuori che i numeri di classifica non hanno sempre lo stesso matematico valore. Gigliotti se ne rammarica sotto i baffi grigi: vede vita dentro le corse, lui. Ha visto vincere e perdere tanti dei suoi. Ha allenato oltre a Baldini, Gelindo Bordin, campione olimpico a Seul, Maria Guida campionessa europea e Alessandro Lambruschini, bronzo olimpico ad Atlanta, l’ultimo uomo bianco sui 3.000 siepi, diventato suo genero.A chi gli chiede di chi sia il merito di tante vittorie in fondo tutte sue, Gigliotti si schermisce un filo, dietro il sorriso bonario che arriva fino ai suoi occhi azzurri: «È dei papà e delle mamme: la predisposizione naturale è un punto di partenza non negoziabile. Se hai nel Dna i numeri per diventare un campione puoi diventare Stefano Baldini altrimenti rimani soltanto un buon atleta, ma non vinci l’Olimpiade». Però Gigliotti che è uomo di lunga esperienza sa che sulla predisposizione poi bisogna lavorare, che di solo talento nessuno diventa campione, specie in discipline come la maratona, dove non si inventa nulla: «Per questo mi sento un tecnico fortunato, nel senso che sono cascato bene, anche se per immodestia devo dire che ho sempre prestato più attenzione ai cervelli che alle gambe».Come raccontava in una gelida sera modenese davanti a una pizza, la teste spesso fanno la differenza, anche quando si deve “semplicemente” correre: «Tante volte sento dire: è un campione ma non ha la testa. Io diffido molto di questo genere di atleti: per quanto ne so, se uno non ha la testa gli manca qualcosa di importante».Rimane vero che ogni uomo ha una testa diversa e nemmeno i campioni si somigliano tutti, anzi. Proprio per questo tocca all’allenatore cambiare forma, come Proteo, per assumere i panni giusti a seconda delle circostanze: «Bisogna agire da educatori, guidare i ragazzi fino a un certo punto, ma poi accettare di lasciarli andare: devono imparare a gestirsi da soli, solo così sapranno come condurre una gara lunga come la maratona. L’allenatore a un certo punto deve accettare di farsi da parte, di non essere protagonista, deve cedere la ribalta. Ci si arriva in modi diversi, dipende dalle persone: ci sono atleti che hanno bisogno di essere continuamente rassicurati, altri devono essere spinti, altri vanno frenati perché vorrebbero allenarsi oltre il necessario: con un metodico come Baldini si lavora in grande tranquillità, ha un approccio professionalissimo, rispetta tutti i dettami, non c’è bisogno di discutere mai. Bordin aveva un carattere tutto diverso: un cavallo da tiro, grandissimo faticatore, ma disobbediva continuamente soprattutto quando pretendevo che rispettasse il riposo; trovava sempre qualche sfida scavezzacollo da raccogliere. E allora erano liti furiose, baruffe tremende tra me e lui. Però avevo fiducia in lui, sapevo che era in grado di gestirsi e ogni tanto dovevo anche cedere, lasciarlo fare di testa sua. Se avessi preteso di imbrigliarlo, senza lasciargli qualche sfogo, sarebbe scoppiato. Stefano invece non ha mai avuto bisogno di questo, è un ragioniere di natura».
Luciano Gigliotti È il maestro dei maratoneti italiani. Sotto la sua guida hanno vinto l’oro olimpico Gelindo Bordin e Stefano Baldini. Non si contano le medaglie europee e mondiali all’attivo. Partito dalla scuola, come docente di educazione fisica, si porta tuttora il nomignolo di “professore”.

Quando c’è la passioneIl successo nello sport è sempre almeno in parte questione di stoffa. Ma la stoffa non è inerte, sa essere capricciosa a volte. Che si tratti di un pallone, di una matita, di un violino, il talento è questione di feeling, ma non è scritto da nessuna parte che debba sbocciare al primo appuntamento. Certe volte, magari rare, il talento si innamora delle strade tortuose, chiede pazienza e fantasia per guardare al di là delle prime apparenze. Chi ha conosciuto Gabriel Batistuta da bambino sa che era cicciottello e giocava con un piede solo ma se glielo avessero lasciato fare si sarebbe addormentato abbracciato a un pallone, tant’era la sua passione. Chi l’ha conosciuto campione ha visto un grande professionista, molto atletico e dotata di un tiro prodigioso da entrambi i piedi. Si sarebbe detto un istinto e invece era lavoro, e pazienza e fatica, e passione. Ore passate a compensare quello che la natura aveva nascosto.È dura diventare campioni così, ci vuole tempo e costanza, ma di più un maestro che non si innamori soltanto di quelli subito bravi.Uno l’abbiamo in casa noi, insegna ginnastica artistica a Meda, a bambini e campioni insieme: si chiama Maurizio Allievi e in mezzo a un manipoletto di ginnasti tra i migliori d’Europa e del mondo s’è inventato un campione olimpico di nome Igor Cassina, uno su cui altri non avrebbero scommesso granché.«Quando era piccolo», racconta Allievi, «era poco elastico, molto legato. E si vedeva già che sarebbe diventato alto». La statura elevata per un ginnasta è uno svantaggio. Si tratta di sfidare la gravità in acrobazia: un corpo leggero e compatto ha equilibrio e gira in volo più rapidamente in minor spazio. «Io so che una pera cotta non diventa campione, ma non si fa sport soltanto per diventare campioni, lo si fa anche perché è bello, perché si sta insieme, insomma per passione».E sulla passione, prima di tutto sulla propria, Maurizio Allievi ha costruito i successi di una vita, per una strada più tortuosa di come l’aveva immaginata. Se fosse andato dritto sarebbe diventato un ginnasta, ma mentre preparava l’Olimpiade di Mosca il destino si è messo di traverso: un braccio rotto, i sogni infranti e tutta una vita da ripensare prima del tempo prestabilito. «Non dico che sia stato facile, lì per lì mi è crollato il mondo addosso. Ma non c’era molto da fare, il mio mondo era quello e ho deciso di restarci, semplicemente passando dall’altra parte». A vent’anni ha cominciato ad allenare.A volte si tratta di sperimentare, di inventarsi una strada diversa da quella consueta, o di cambiare sguardo: «Di diverso dagli altri Cassina aveva la testa. Amava quello che faceva, anche da piccolo non si arrendeva mai, non mollava nemmeno se doveva fare fatica doppia rispetto agli altri per arrivare allo stesso risultato: in quello lui era speciale, migliore. Io non mando via un bambino dalla palestra perché non è dotato, se ha passione me lo tengo anche se sono sicuro che non diventerà campione, se si va via un giorno insieme a fare una gara, li porto tutti: se uno bravo ha un amico scarsino, lo porto perché è un amico, non lo lascio a casa perché non vincerà. Mai avrei mandato via uno con la passione e l’abnegazione di Igor».Di lì a farne un campione olimpico la strada è lunga e complicata, ci vuole anche fantasia: «Accanto alla sua testa c’era la sua straordinaria coordinazione: un senso dell’orientamento superiore al comune, una percezione estremamente precisa della posizione del corpo in volo. Nel nostro sport conta molto. Ho capito che gli mancavano alcune doti ma che ne aveva altre, molto importanti. Toccava a me trovare la soluzione adatta a lui: se mi fossi intestardito a farne uno specialista agli anelli o al corpo libero avrei fallito, con il suo fisico longilineo certe evoluzioni non sono pensabili. Però alla sbarra c’era margine».Si tratta di impugnare una barra orizzontale, semielastica, posizionata a 2,8 metri da terra, sostenuta da montanti e tiranti. Facendo perno sulla sbarra, l’atleta esegue movimenti complessi, staccando le mani per compiere evoluzioni in volo, per poi riprendere l’impugnatura. «Igor ha imparato a fare questo, ai massimi livelli mondiali. Un giorno l’ho guardato fare un certo movimento: prendere lo slancio, lasciare l’impugnatura, eseguire un salto mortale ruotando contemporaneamente sull’asse orizzontale e verticale con il corpo raccolto per poi riafferrare la sbarra ricadendo (senza cadere)». Detto così sembra complicatissimo e infatti lo è.«L’ho visto andare altissimo sopra la sbarra e ho capito che avrebbe potuto fare la stessa cosa a corpo teso. Era un movimento nuovo, non codificato dai codici, mai fatto da nessuno prima. Se l’avesse eseguito in un’occasione ufficiale quel movimento si sarebbe chiamato Cassina. La cosa difficile è stata convincerlo che si poteva fare. La prima volta, quando gli ho suggerito di provare, mi ha dato del pazzo». Con quel movimento che porta il suo nome, nel 2004 Igor Cassina ha vinto l’Olimpiade di Atene.Adesso sa farne anche una versione evoluta, ancora più difficile con un giro in più sull’asse verticale. La prova è sul suo sito internet ragione Zorba, il gatto di Sepulveda: «solo chi osa impara a volare».
Igor Cassina È uno degli atleti più popolari dello sport italiano. Il suo successo all’Olimpiade di Atene, nella ginnastica artistica, ha colpito l’immaginario collettivo per l’originalità di un movimento che oggi porta il suo nome.

LA MADRE DI JURI CHECHI
Quei pomeriggi passati in palestraPer ogni campione che sboccia c’è un maestro che ha avuto fiducia, ma prima ci sono stati una mamma o un papà con un sacco di pazienza. La parentela incide sullo sport non solo “attraverso” i geni. Con lo spirito di servizio, per esempio, con l’amore: ce ne vuole per consolare un bambino che perde, ma ancora prima ce ne vuole per accompagnarlo e andarselo a riprendere il pomeriggio agli allenamenti e la domenica alle gare, senza riguardo per il tempo inclemente e neanche per quell’altro tempo che si deve cavar fuori da qualche parte, per conciliare con la vita quotidiana le ore che servono a far crescere un campione in erba.Niente di troppo programmato almeno in Italia. Da noi i campioni non si allevano in batteria mai, si comincia un giorno per caso, per sfuggire alla trappola sedentaria della Tv e poi chissà.Se va male entri in palestra per caso, ci passi un po’ d’infanzia, fai la ruota sulla spiaggia e poi torni a prendere il sole. Se ti chiami Jury Chechi ci resti 28 anni. «Ne aveva sette quando è entrato in palestra a Prato la prima volta. Andavamo a prendere Tania, sua sorella maggiore, che faceva un corso di ginnastica artistica. Non so esattamente che cosa vide là dentro ma so per certo che se ne innamorò». A raccontare è Rosella, la mamma di Jury, dalla sua finestra privilegiata sul campione. «Ho passato in quella palestra una teoria infinita di ore, ho fatto tanta calza là dentro come mai in tutta la vita, ma ricordo quei pomeriggi come un tempo meraviglioso. Rivedo il mio bambino felice, pieno di entusiasmo. Aveva una passione incredibile, traeva soddisfazione da quello che imparava, sostenuto forse dalla predisposizione: si vide subito che ci sapeva fare, ma mai avrei immaginato così tanto». A casa Chechi lo sport era pane quotidiano: «Mio marito era patito di boxe e di bicicletta, a tutte e due le discipline aveva iniziato in qualche modo Jury, della ginnastica non sapevamo molto».Jury racconta che, prima di scoprirne l’essenza, papà si preoccupò anche, temendo che fosse roba frivola per un ragazzo. Ma il pregiudizio durò poco. Quando il campione in erba a otto anni si stancò delle medaglie che già mieteva copiosamente a ogni gara fu il padre a scongiurarne il ritiro precoce, acquistando di tasca propria una coppa da sostituire, d’accordo con l’allenatore, al premio ufficiale.«Tra gli amici», racconta ancora divertita la signora Rosella, «c’era chi ci suggeriva di incoraggiarlo verso discipline meno acrobatiche: alle altre mamme quella combinazione di evoluzioni e salti mortali sapeva di rischio e di gambe rotte. A me invece quella disciplina ferrea dava un’idea di educazione, di responsabilità: lui lo faceva per passione, ma intanto fin da piccino imparava a organizzarsi, sapeva di dover fare subito i compiti al ritorno da scuola perché nel resto del pomeriggio ci fosse tempo per la palestra. Non aveva troppe ore libere per mettersi grilli in testa e a me questo sembrava un effetto collaterale positivo».Ne sarebbero arrivati presto di più gravosi, prima di quanto la fantasia di una famiglia potesse immaginare. La mamma non era l’unica a spiare le evoluzioni del piccolo atleta dai capelli rossi. Qualcun altro da lontano teneva d’occhio i suoi risultati.L’abbiamo lasciato partire«Un giorno si materializzò a casa un dirigente della federazione ginnastica: stavano osservando da tempo Jury, avevano notato un talento non comune e volevano coltivarlo: chiedevano che si trasferisse ad allenarsi in un centro federale. Jury aveva allora 14 anni»Voleva dire Varese: 350 chilometri da casa, un viaggio piuttosto definitivo per inseguire un sogno di là da venire. «Mio marito, lo sportivo di famiglia, considerava la faccenda una follia, ma Jury si impuntò. Aveva argomenti seri, chiedeva di giocarsi la sua occasione. Abbiamo provato a fare resistenza in tutti i modi, ma davanti a un figlio che diceva “se mi vuoi bene lasciami andare”, non abbiamo avuto il coraggio di dire no. L’abbiamo lasciato partire, a patto che abitasse in collegio e che proseguisse gli studi fino a prendere il diploma con un corso regolare».Non che bastasse a fugare le preoccupazioni di una madre: «Gli si diceva, se hai bisogno di noi chiama, di giorno di notte, chiama. Non lo fece mai, ma quante notti insonni abbiamo passato pensando al rischio che qualcosa andasse storto. Parenti e amici ci guardavano come se fossimo pazzi. Vivevamo nel terrore che potesse perdersi così lontano. Immaginate i sensi di colpa se la vita avesse dato ragione ai timori degli altri».A Varese Jury Chechi trovò Bruno Franceschetti, un maestro ruvido e franco che gli indicò giorno per giorno senza sconti la strada per vincere. Funzionò. Chechi era l’unico occidentale a mettere paura ai ginnasti dell’Est e all’Olimpiade di Barcellona sarebbe andato tra i favoriti.Mamma Rosella preparava come di consueto il suo viaggio di conserva: «Non mi sono persa una gara costasse migliaia di chilometri. Ci davamo appuntamento anche in capo al mondo, era il nostro modo di riprenderci la consuetudine che la ginnastica ci aveva tolto troppo presto. Ero a casa di un’amica, stavo cucendo le bandiere da portare a Barcellona, quando la prima notizia del Tg sportivo ha risvegliato d’un colpo tutti i miei fantasmi: Jury si era rotto il tendine d’Achille in allenamento e io venivo a saperlo dalla Tv, mentre lui cercava disperatamente di chiamarmi a casa».Non potevano saperlo, ma dalle macerie di un talento polivalente sarebbe nato uno splendido specialista: signore degli anelli per forza, l’unico attrezzo che consentiva di chiedere alle braccia di compensare sforzi che una gamba con un pezzo ricostruito in sala operatoria non poteva più permettersi. Quattro anni dopo Barcellona, Chechi tornava ai Giochi di Atlanta con quattro titoli mondiali in tasca, vinti appeso alle corde degli anelli. Avrebbe compiuto 27 anni di lì a poco: bisognava vincere subito, per un’altra Olimpiade non ci sarebbe stato tempo. «I giorni di Atlanta», dove mamma Rosella aveva affittato un appartamento, «furono tra i più ansiogeni della mia vita, credo di essermi risparmiata un infarto solo grazie ai calmanti somministrati da mia figlia medico. Jury pativa la pressione come mai gli era accaduto. Continuava a cadere: un incubo». Andò a vincere come sapeva, perché è così che si riconoscono i campioni. Di più, tornò a ferirsi e a gareggiare ancora a 35 anni all’Olimpiade di Atene, vincendo un bronzo che valeva oro.«L’ho visto vincere così tante volte che non saprei contarle. E ogni volta che è accaduto non ho potuto fare a meno di ripensare all’infermiera che me lo portò appena nato. Lì per lì rimasi male, mi scappò detto: “Mamma mia che brutto citto ho fatto!”. Me lo riprese: “Madre snaturata, che dice mai? Non sa che questo diventerà un campione?” Forse lo diceva a tutte, però, sapendo com’è andata a finire, un po’ fa impressione».Elisa Chiari

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